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Phyllis Lambert

L’enigmatica fondatrice del Canadian Centre of Architecture (CCA), tra le figure femminili più influenti dell’architettura si racconta in una intervista a Sergio Pace. Dal “Giornale dell’Arte” n. 189, giugno 2000

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Mies van der Rohe, Phyllis Lambert e il modello del Seagram Building da The Seagram Spotlight, ottobre 1955, pubblicato da Joseph E. Seagram and Sons, Inc. Fondo Phyllis Lambert, Canadian Centre for Architecture

Phillis Lambert, architetto, ha studiato a Chicago con Ludwig Mies van der Rohe, con cui ha collaborato quale director of planning del Seagram Building a New York (1954-58). Insignita di premi e onorificenze, autrice di saggi sulla città e l’architettura moderna e contemporanea, nel 1979 ha costituito a Montréal il Centre Canadien d’Architecture (CCA), di cui oggi è direttore fondatore, nonché presidente del consiglio di amministrazione. Lei è allo stesso tempo un architetto, una studiosa e una collezionista.

In quale ordine descriverebbe le sue competenze e attività?

In nessun ordine: queste diverse attività per me hanno senso soltanto se svolte allo stesso tempo e nello stesso luogo. Curare una collezione è uno dei modi di fare ricerca in architettura, esattamente come disegnare un prospetto. Una collezione deve essere però parte di un disegno culturale complessivo, quasi filosofico, nel quale storia, teoria e progetto dialogano tra loro.

Recentemente Lei ha scritto che «il CCA è stato fondato come centro di ricerche e museo dedicato all’arte dell’architettura passata e presente, con la triplice convinzione che l’architettura, in quanto parte dell’ambiente sociale e naturale, sia una questione di pubblico interesse, che la ricerca architettonica abbia una profonda influenza sulla cultura e che gli studiosi abbiano una responsabilità sociale di primissimo ordine». È una dichiarazione molto impegnativa.

Noi infatti consideriamo il CCA una presenza politica e crediamo nella responsabilità sociale dello studioso. Ad esempio, in Canada accade talvolta che i musei o le esposizioni dedicate alla storia delle diverse nazionalità sfuggano poi a un confronto con le condizioni di vita attuali di queste popolazioni. E una grave omissione. Le questioni sociali sono sempre determinanti per l’architettura, che rimane essenzialmente un gesto politico. I disegni, i modelli, le fotografie, i documenti della nostra collezione possono anche essere considerati opere d’arte, ma ciò non cancella la natura essenzialmente politica di una raccolta d’architettura. E d’altronde noto quanto io mi impegni nelle politiche urbane, di Montréal in particolare. Questo perché l’ambiente costruito è sempre di grande importanza sociale, e ancor più per i gruppi svantaggiati, i cui problemi spesso iniziano proprio nel non avere voce nelle scelte architettoniche e urbanistiche.

Il suo impegno nella ricerca sul contemporaneo si intreccia con quello per la salvaguardia del patrimonio storico di Montreal e del Québec.

Sì, anche se non mi è mai piaciuto parlare in termini di «salvaguardia» preferisco parlare di scelte strategiche sulla storia, sui conflitti attuali e sui destini futuri delle città. Prendiamo il caso del vieux Montréal, il quartiere storico del porto, dove il governo federale voleva imporre scelte legate esclusivamente alla rendita fondiaria e alla proprietà immobiliare. È stata una battaglia durissima, ma l’abbiamo vinta portando la questione all’attenzione dei cittadini, invitandoli a intervenire nel dibattito. Questa discussione pubblica ha permesso di ottenere da un lato la «salvaguardia» di molte architetture eccezionali e di un tessuto urbano unico, ma dall’altro anche l’avvio di trasformazioni essenziali per la vita della città, come nel caso recentissimo del Centre iSci, il grande Centro delle scienze insediato su uno dei moli del vecchio porto.

E la città contemporanea?

La città contemporanea richiede altrettanta attenzione di quella storica e un chiaro quadro istituzionale preposto ad elaborare le strategie urbane. Le città hanno bisogno di interventi che consolidino o modifichino non soltanto il tessuto urbano ma soprattutto il sistema di valori collettivi. Prendiamo la Grande Bibliothèque du Québec, che si costruirà a Montreal. Nella giuria del concorso, che presiedo, l’opinione è stata unanime: l’edificio dovrà contribuire a risolvere i problemi di un’area attualmente priva di grandi qualità, ma soprattutto dovrà rappresentare un’istituzione di primo piano nella vita della città e del Québec. L’architettura ha il dovere morale di rispondere a questi obbiettivi, come mi ha insegnato Mies van der Rohe.

Mies van der Rohe costituisce sempre un riferimento importante per lei?

Da anni mi occupo della sua opera, tanto che per il 2001 stiamo preparando al CCA una grande esposizione su Mies van der Rohe in America. Mies ha sempre presentato difficoltà estreme agli studiosi, e resta indubbiamente uno dei grandi maestri del XX secolo. Da lui ho imparato moltissimo, soprattutto a lavorare pensando all’unità dell’opera e alla complessità del tutto senza farmi suggestionare dal fascino del frammento. Sono felice di avere avuto insegnanti straordinari. Oltre a Mies, penso a Richard Krautheimer: entrambi mi hanno insegnato soprattutto a considerare le mie varie attività come parti di un unico disegno culturale, dove conoscenza, tutela e progetto sono parti inscindibili.

Il CCA è stato incaricato di organizzare la partecipazione ufficiale canadese alla Biennale di Architettura che si apre a Venezia il 18 giugno. Quali sono state le vostre scelte?

Anche quello che presenteremo a Venezia risentirà dello spirito sociale del nostro progetto culturale. Il CCA, insieme al Royal Architectural Institute of Canada e al Council of Canadian University Schools of Architecture, ha scelto come rappresentante canadese Melvin Charney, che presenterà la versione più recente del suo «Un dictionnaire» Si tratta di una serie di fotografie delle agenzie di stampa, selezionate, classificate e ordinate fin dal 1970. E un’opera di eccezionale interesse, una sorta di monumento della fine del XX secolo ma in costante evoluzione, immerso nel fluire della vita. Chamey ci ricorda infatti che l’architettura è ambiente costruito ma, allo stesso tempo, un insieme di pratiche e flusso di immagini, idee, esperienze.

David Sharp, Phyllis Lambert, Myron Goldsmith e Jin Hwan Kim in uno studio della classe di Master, School of Architecture, Crown Hall, Illinois Institute of Technology (IIT), 1961 circa, stampa alla gelatina d’argento, 20,5 × 25,5 cm, fondo Phyllis Lambert, Canadian Centre for Architecture